Al centro della novità costituita dall'ingresso delle opere filosofiche greche nel mondo latino e dei susseguenti conflitti sulla loro compatibilità con la fede cristiana, Tommaso d'Aquino prende decisamente posizione a favore di Aristotele, sviluppando anzitutto una precisa distinzione di piani tra discorso filosofico e discorso teologico. Entrambi prendono a proprio oggetto le ultime realtà, ma lo fanno con punti di partenza differenti: il primo quella della ragione naturale, il secondo quello della rivelazione di Dio. Solo il discorso teologico raggiunge dunque il fine soprannaturale dell'uomo, ma quello filosofico risulta non solo pienamente giustificato, ma anche indispensabile: l'esistenza di Dio è per esempio dimostrabile razionalmente, e solo con questa premessa la teologia cristiana può cominciare a muovere i suoi passi. Quest'ultima ha del resto un carattere pienamente scientifico in quanto al suo interno rispetta i criteri dell'argomentazione logica quanto qualsiasi altra scienza. L'originalità della metafisica di Tommaso discende in gran parte dall'integrazione creativa di tratti neoplatonici nel quadro aristotelico di fondo. L'elemento risultante che verrà dai posteri ritenuto più caratteristico è la distinzione reale tra essere ed essenza: l'“essenza” di ogni cosa, in quanto contingente, significa una semplice possibilità, che si realizza solo quando si esprime in un “atto di essere”. Questa distinzione costituisce anche il punto di partenza per dimostrare l'esistenza di Dio e la creazione del mondo: essendo contraddittorio affermare che una cosa conferisce l'essere a sé stessa e non potendosi andare all'infinito, bisogna ammettere che all'origine ci sia lo “stesso essere sussistente”, qualcosa cioè in cui essere ed essenza non sono distinti, che va chiamato “Dio”. Una valutazione profondamente positiva della realtà creata emerge dalla teoria dei trascendentali, che mostra che ogni cosa che esiste possiede, in quanto esistente, le caratteristiche dell'unità, della verità, della bontà, della bellezza, che le vengono partecipate da Dio. La psicologia e la morale applicano tale sguardo positivo alla realtà umana. Riguardo all'anima, in polemica con gli agostiniani, Tommaso ritiene che essa ha il potere naturale di conoscere la realtà e non ha dunque bisogno di una continua illuminazione da parte di Dio. Riguardo alla morale viene rivendicato il valore di un'etica naturale, che non è annullata dalla constatazione che il fine della perfetta beatitudine a cui aspira l'uomo non può essere raggiunto con le sole forze naturali. Nella valutazione dell'atto umano Tommaso accoglie fin dove gli era possibile le coraggiose proposte di Abelardo, che assegnavano un ruolo determinante all'intenzione con la quale si agisce: per questo l'uomo ha sempre il dovere di agire seguendo la propria coscienza, e contemporaneamente il dovere di conoscere sempre meglio che cosa è veramente bene. Uno dei tratti più caratteristici del pensiero di Tommaso d'Aquino è senza dubbio il tentativo di armonizzare, nella loro reciproca autonomia, filosofia e teologia. Per Tommaso il problema si poneva in maniera molto forte: la sostanziale accettazione della filosofia aristotelica, che pareva a prima vista conciliabile con molta difficoltà con il pensiero cristiano, poteva suscitare l'impressione di una subordinazione della rivelazione al pensiero razionale (come sembrava essere avvenuto nella filosofia araba di Averroè [1126-1198]). Bisogna quindi anzitutto mostrare che oltre le scienze filosofiche è necessaria all'uomo un'altra dottrina, superiore per valore alle scienze filosofiche e certa quanto esse. La necessità della teologia è fondata da Tommaso sulla necessità della rivelazione stessa: dato che l'uomo è diretto per la sua natura ad un fine che eccede le sue capacità naturali (un tema che diverrà più chiaro parlando della morale), per la salvezza dell'uomo è necessaria una rivelazione divina. La dottrina basata sulla rivelazione non va però confusa con la teologia razionale: quest'ultima prende a proprio oggetto Dio così come egli può essere conosciuto alla sola luce della ragione (come per esempio aveva fatto Aristotele), la teologia rivelata così come egli ha voluto rivelare sé stesso. In questo modo è assicurata anche l'autonomia della speculazione puramente razionale: tutt'altro che essere esautorata, essa diviene invece la premessa (il preambulum) della teologia, presentando le verità cui l'uomo può giungere con le sue sole forze, che attendono poi completamento dalla rivelazione. Un caso tipico è costituito dall'esistenza di Dio: Il fatto che dio esista, e altre cose di questo tipo che tramite la ragione naturale possono essere note su dio, come viene detto in Rom. 1, 19, non sono articoli [= princìpi] di fede, ma premesse agli articoli: infatti la fede presuppone la conoscenza, così come la grazia presuppone la natura, e come la perfezione presuppone ciò che può essere reso perfetto. Tuttavia nulla proibisce che ciò che di per sé è dimostrabile e conoscibile venga accettato come credibile da qualcuno che non capisce la dimostrazione (Somma teologica 1, q2a2ad1). L'ultima annotazione significa questo: l'esistenza di Dio è per esempio una verità razionale, e quindi può essere “conosciuta”; ma chi non ne capisce la dimostrazione potrà semplicemente “credervi”, per esempio fidandosi di chi gli assicura che essa è corretta (se così non fosse la fede cristiana sarebbe accessibile solo al filosofo!). Ma la teologia in sé (o “sacra dottrina”, come preferisce chiamarla Tommaso) può essere definita “scienza”? Ecco per intero la discussione del problema: Per il secondo articolo si procede così: sembra che la sacra dottrina non sia una scienza. Infatti ogni scienza procede da princìpi noti per sé. Ma la sacra dottrina procede dagli articoli di fede, che non sono noti per sé, non essendo ammessi da tutti: la fede infatti non è di tutti, come si dice in 2Tess. 3, 2. Dunque la sacra dottrina non è una scienza. Inoltre, la scienza non riguarda le cose singolari. Ma la sacra dottrina tratta di cose singolari, per esempio delle gesta di Abramo, Isacco e Giacobbe, e simili. Dunque la sacra dottrina non è una scienza. Ma contro c'è ciò che dice Agostino in De Trinitate 14, 7: “A questa scienza si attribuisce solo ciò tramite cui la fede che dà la salvezza viene generata, nutrita, difesa, rafforzata”. Ma ciò non appartiene a nessuna scienza se non alla sacra dottrina. Dunque la sacra dottrina è una scienza. Rispondo dicendo che la sacra dottrina è una scienza. Ma bisogna sapere che ci sono due generi di scienze. Infatti alcune sono quelle che procedono da princìpi noti alla luce naturale dell'intelletto, come l'aritmetica, la geometria e le scienze di questo tipo. Altre invece sono quelle che procedono da princìpi noti alla luce di una scienza superiore: come la prospettiva procede da princìpi resi noti dalla geometria, e la musica da princìpi noti tramite la matematica. E in questo modo la sacra dottrina è una scienza, perché procede da princìpi noti alla luce di una scienza superiore, vale a dire la scienza che posseggono dio e i beati. Quindi, come la musica crede ai princìpi trasmessile dal matematico, così la sacra dottrina crede ai princìpi rivelatile da dio. Alla prima obiezione dunque bisogna dire che i princìpi di qualsiasi scienza o sono noti per sé, o si riconducono alla notizia di una scienza superiore. E tali sono i princìpi della sacra dottrina, come è stato detto. Alla seconda bisogna dire che le cose singolari vengono trasmesse nella sacra dottrina non perché si tratti principalmente di essi: ma vengono introdotti sia come esempio di vita, come nelle scienze morali; sia anche per rendere chiara l'autorità degli uomini tramite cui giunse a noi la rivelazione divina, sulla quale si fonda la sacra Scrittura ovvero la sacra dottrina (Somma teologica 1, q1a2). In sintesi: la teologia trae i suoi princìpi da una “scienza” superiore, che è la conoscenza che Dio ha di sé stesso (e che posseggono per quanto possibile anche coloro che sono giunti alla beatitudine eterna); e come il musicista si fida delle informazioni che il matematico gli dà riguardo alla sua scienza, così il teologo (come ogni altro credente) si fida delle notizie che Dio ha dato di sé stesso rivelandosi. Ma il carattere scientifico della teologia è assicurato dal suo metodo razionale e argomentato, che permette di ricavare conclusioni logiche da premesse di fede e anche di ragione. Ciò non significa per Tommaso (come s'intenderà più tardi) che la teologia sia esclusivamente una scientia conclusionum, una scienza cioè che non fa altro che tirare conseguenze da princìpi indiscutibili: anche nei confronti dei princìpi di fede la ragione ha infatti il compito di mostrare che essi sono credibili. Ciò può essere fatto in due modi: o evidenziando l'autorità del rivelante, o dimostrando che i princìpi rivelati non solo non sono contrari alla ragione, ma anzi si trovano intimamente d'accordo con essa. La fede non è infatti concepita come qualcosa di irrazionale e privato, ma l'atto tramite cui accettiamo come vero sulla base di buoni motivi qualcosa rivelato da qualcuno. Questo è il senso anche delle molte dimostrazioni di “convenienza”: delle opere di Dio non è possibile mostrare la necessità (ciò significherebbe negare la libertà di Dio); si può però, a posteriori, comprendere che sono coerenti con la sua natura. Un esempio tipico tra i molti possibili è la discussione sull'incarnazione di Dio: La stessa natura di dio è la bontà. ... Quindi qualsiasi cosa appartenga al carattere del bene è conveniente a dio. Ma appartiene al carattere del bene che si comunichi ad altri. ... Quindi al carattere del sommo bene appartiene che si comunichi alla creatura nel modo più alto. Ciò in verità avviene per il fatto che “congiunge a sé la natura creata di modo che venga una sola persona da tre elementi, verbo, anima e carne”, come dice Agostino in De Trinitate 13, 17. Dunque è chiaro che fu conveniente che dio si sia incarnato (Somma teologica 3, q1a1c). Bisogna inoltre notare che Tommaso, nonostante affermi che l'unico scopo dei fatti “singolari” è servire o da esempio morale o da prova dell'autorità, non può rimanere fedele a quest'assunto di origine aristotelica. Una parte importante della Somma Teologica è infatti dedicata a Cristo: alla sua persona, alla sua vita, alla sua passione, morte e resurrezione, tutti aspetti o fatti singolari per eccellenza. È evidente allora che, malgrado le affermazioni di principio contrarie, la teologia di Tommaso non può rinunciare a quel fatto del tutto unico e particolare che è costituito dal compimento della salvezza nella storia. In questo modo la fede cristiana, eminentemente storica, rivendica i suoi diritti, costringendo Tommaso a trasgredire tacitamente le regole della scientificità della cultura del suo tempo. Riassumendo, in Tommaso la ragione svolge un triplice compito a servizio della teologia: 1) dimostra le premesse che permettono l'accoglienza dei princìpi di fede; 2) mostra la “credibilità”, cioè in ultima analisi la coerenza, dei princìpi di fede; 3) offre il metodo argomentativo tramite cui dedurre dalle premesse razionali e dai princìpi di fede ulteriori verità. Nel seguito toccheremo quasi esclusivamente gli aspetti più originali della filosofia di Tommaso che, proprio per le ragioni dette, è facilmente separabile dalle discussioni teologiche. Si noterà tuttavia che si tratta di una separazione che ha un carattere provvisorio: la filosofia è infatti secondo Tommaso capace di comprendere i propri stessi limiti, e dunque di attendere un completamento da una scienza guidata da una luce superiore alla ragione naturale. Inoltre, il ruolo chiarificatore che la ragione assume nei confronti degli articoli di fede fa sì che molte delle discussioni filosoficamente più interessanti si trovino in un contesto propriamente teologico. Nelle sue linee generali, la metafisica di Tommaso si presenta come un'intenzionale ripresa di Aristotele, le cui opere proprio in quell'epoca cominciavano a circolare nella loro interezza nel mondo culturale di lingua latina. L'aristotelismo di Tommaso d'Aquino è tuttavia fortemente impregnato di elementi neoplatonici, desunti da varie fonti (Porfirio [232-304], Proclo [410-485], Dionigi l'Areopagita [5º secolo], ibn Sînâ ovvero Avicenna [980-1037]). L'influenza neoplatonica si può rilevare anzitutto nella maggiore sottolineatura della distinzione tra gli enti sensibili e quelli puramente intellegibili, distinzione che in Aristotele veniva attenuata dall'identificazione dell'ousía con la “forma”. Secondo Tommaso ciò è pienamente vero solo nel caso degli enti privi di materia (detti “sostanze separate” e identificati con gli angeli), la cui natura o essentia (questa è l'originaria traduzione latina di ousía) è solo forma; ma nel caso degli enti necessariamente possedenti materia (le “sostanze composte”, per esempio l'uomo), l'essentia è il composto di forma e materia. Tale precisazione di sapore neoplatonico in Tommaso sembra però ottenere un risultato contrario a quello originario: non una svalutazione delle sostanze composte, ma piuttosto una maggiore stima della corporeità. Affermare che la materia fa parte dell'essenza significa infatti sostenere per esempio che la perfezione dell'uomo include necessariamente anche la corporeità (donde la giustificazione razionale dell'articolo di fede sulla resurrezione della carne). Parimenti influenzata dal neoplatonismo è la diversa concezione dell'essenza. Mentre in Aristotele l'ousía e il tí én éinai (l'“essere-per-ciascuna-cosa”) erano anzitutto singolari, in Tommaso l'essentia (o quidditas) è universale, e viene così ad avvicinarsi alla nozione logica di éidos, cioè di specie. Da qui nasce un problema che in Aristotele non poteva porsi: vale a dire il problema dell'individuazione. Se l'essentia è universale, ma la realtà è del resto solo singolare (in questo Tommaso accetta integralmente la critica d'Aristotele a Platone), che cosa conferisce l'individualità alla singola cosa? Sfruttando un'osservazione marginale di Aristotele e seguendo Avicenna, Tommaso risponde che si tratta della materia: Il principio di individuazione è la materia. Da ciò sembrerebbe seguire che l'essenza, che comprende in sé la materia e assieme la forma, sia soltanto particolare e non universale. ... E dunque bisogna sapere che non la materia comunque intesa è principio d'individuazione, ma solo la materia determinata (materia signata). E dico materia determinata quella che viene considerata sotto certe dimensioni. ... Nella definizione dell'uomo viene posta la materia non determinata: infatti nella definizione dell'uomo non si pone questa carne e queste ossa, ma carne e ossa in assoluto, che sono la materia non determinata dell'uomo (Sull'ente 2, 6). Nel caso dell'uomo dunque, non è l'anima in quanto tale che conferisce individualità (l'anima è forma), ma solo in quanto fatta per unirsi ad un corpo (“la moltiplicazione delle anime è secondo la moltiplicazione dei corpi”, Somma teologica 1, q72a2ad2). Diverso è il caso degli angeli: non avendo essi materia, l'individualità sarà necessariamente data dalla forma, che dunque sarà diversa per ogni angelo e si identificherà con lui. È comunque solo l'ente pienamente individuato che può ricevere il nome di “sostanza” (traduzione del greco hypóstasis), indicante ciò che sussiste realmente e autonomamente. In questo mutamento di prospettiva c'è anche una importante conseguenza di carattere gnoseologico. Con l'affermazione dell'universalità dell'essenza Tommaso riesce infatti ad aggirare una difficoltà della filosofia aristotelica, nascente dalla giustapposizione tra l'individualità della realtà e l'universalità della scienza: in quale modo la scienza può allora avere una sua verità? In Tommaso il problema è risolto perché l'universale non è solo un prodotto dell'astrazione dell'intelletto (universale post rem), ma è anche realmente presente nella singola cosa (universale in re), anzi la precede pure (neoplatonicamente) nella mente di Dio, che possiede i modelli esemplari di tutte le cose create (universale ante rem, ovvero ideae). Questa era già la soluzione che aveva dato al problema degli universali Pietro Abelardo. La scienza dunque è valida anzitutto perché non si basa solo su generalizzazioni (in quanto tali fallibili), ma sulla capacità che l'intelletto possiede di riconoscere l'universale incarnato nelle singole cose. La totale assenza di materia negli angeli (sostenuta in polemica con il contemporaneo Bonaventura [1221-1274], che vedeva in essi la presenza di una “materia spirituale”) pone di fronte ad un ulteriore problema. Affermare che essi sono forme pure non equivale forse a designarli come “atti puri”, eguali quindi a Dio stesso? Tommaso evita questa conseguenza con la dottrina della distinzione reale tra esse ed essentia: Qualsiasi cosa non faccia parte della comprensione dell'essenza o quiddità, le viene dall'esterno ed entra in composizione con l'essenza, perché nessuna essenza potrebbe essere compresa senza ciò che fa parte dell'essenza. Ma ogni essenza o quiddità può essere compresa senza che si comprenda alcunché del suo essere di fatto (de esse suo facto). Posso infatti comprendere che cos'è l'uomo o la fenice, e tuttavia ignorare se abbiano essere nella natura reale (an esse habeant in rerum natura). Dunque è evidente che l'essere è altro dall'essenza o quiddità (Sull'ente 5, 3). Ciò significa che le cose di cui abbiamo esperienza sono contingenti, non posseggono cioè in sé stesse nulla che richieda necessariamente la loro esistenza. Anche nell'angelo, liberamente creato da Dio, c'è dunque una tale composizione tra essere ed essenza, che impedisce di considerarlo un essere assolutamente “semplice”. Fin qui, Tommaso segue sostanzialmente l'opinione che era già stata di Guglielmo di Alvernia (1190-1249). Il passo ulteriore è invece più originale. Come più chiaramente viene detto in testi successivi al Sull'ente e l'essenza, la relazione tra essenza ed essere va chiarita con l'aiuto dei concetti aristotelici di potenza e atto: Nelle cose materiali si trova una duplice composizione. La prima è quella di forma e materia, dalle quali viene costituita una certa natura [ovvero essenza]. Ma la natura così composta non è il suo essere, ma piuttosto l'essere è il suo atto. Dunque la stessa natura è in rapporto con il suo essere come una potenza con un atto. Dunque, eliminata la materia, e posto che la stessa forma sussista senza materia, rimane ancora il rapporto della forma con lo stesso essere, come della potenza con l'atto. E questa composizione bisogna intenderla negli angeli (Somma teologica 1, q50a2ad3). Quindi, i termini potenza e atto possono indicare due cose distinte: o la materia in rapporto alla forma (questo è il significato aristotelico), o l'essenza (materia più forma o forma pura) in rapporto all'essere. Quest'ultimo andrà quindi definito “l'attualità di tutti gli atti” -- per questo viene spesso chiamato anche actus essendi -- e costituisce l'autentico vertice della conoscenza metafisica. In questo modo Tommaso integra all'interno della metafisica aristotelica la tendenza neoplatonica a considerare l'“essere” come un qualcosa dotato di una sua autonomia (non solo concettuale, ma reale) rispetto a tutte le possibili determinazioni degli enti. La distinzione di Tommaso tra essere ed essenza, per quanto non venga presentata con molta enfasi da lui stesso, venne presto ritenuta il tratto più caratteristico del suo pensiero, e come tale vivacemente contestata o difesa, per lo più sotto la forma della coppia concettuale essentia / existentia (un termine quest'ultimo poco amato da Tommaso). Tale distinzione ha così costituito un punto di riferimento fondamentale per pressoché tutte le filosofie posteriori, fino all'esistenzialismo contemporaneo. Un'importanza particolare ha nella metafisica di Tommaso d'Aquino la teoria dei “trascendentali” (come saranno in realtà solo più tardi chiamati), sostanzialmente originale rispetto ad Aristotele (ma in parte ripresa da Alessandro di Hales [1185-1245]). I trascendentali sono gli attributi generalissimi che riguardano l'ente in quanto tale. Essi quindi oltrepassano, “trascendono” le categorie (o “predicamenti”), che dividono invece l'ente in differenti generi (altro è la sostanza, altro la quantità, e così via). La distinzione tra i trascendentali non è quindi reale, ma solo di ragione (e infatti “convertuntur”, dice Tommaso); proprio per questo però essi aiutano a comprendere la ricchezza di un termine -- “ente” -- che altrimenti rischierebbe di rimanere vago e indeterminato. Il passo più completo sui trascendentali si trova nella prima questione Sulla verità, che opera una precisa deduzione dei caratteri dell'ente: Alcune cose vengono dette aggiunte all'ente per il fatto che esprimono un modo dell'ente stesso che non viene espresso dal nome “ente”. Ciò accade in due maniere: nella prima cosicché il modo espresso è un qualche modo speciale dell'ente [= categorie]. ... Nella seconda cosicché il modo espresso sia un modo generale che consegue ad ogni ente; e questo modo può essere inteso in due maniere: nella prima in quanto consegue a qualsiasi ente in sé; nella seconda in quanto consegue ad un ente in rapporto ad un altro. Se è nella prima maniera, ciò avviene in due maniere, perché esprime nell'ente qualcosa o affermativamente o negativamente. E non si trova nulla che sia detto affermativamente in modo assoluto, che possa essere inteso in ogni ente, se non la sua essenza, secondo la quale si dice che esso è; e così viene assegnato il nome “cosa”, che differisce da “ente”, secondo ciò che dice Avicenna all'inizio della Metafisica, perché “ente” viene tratto dall'atto di essere, ma il nome “cosa” esprime la quiddità o essenza dell'ente. E la negazione che consegue ad ogni ente in maniera assoluta è la non divisione, che viene espressa dal nome “uno”: infatti l'uno non è nient'altro che l'ente indiviso. E se il modo dell'ente viene inteso nel secondo modo, cioè secondo il rapporto di una cosa all'altra, ciò può avvenire in due maniere. Nella prima secondo la divisione di un ente dall'altro, che viene espressa dal nome “qualcosa”: infatti si dice “qualcosa” come se si dicesse “un'altra cosa”; dunque come l'ente viene detto “uno” in quanto è in sé non diviso, così viene detto “qualcosa” in quanto è diviso dagli altri. Nella seconda maniera secondo l'accordo di un ente con un altro; e ciò però non può avvenire se non si prende qualcosa che possa per natura accordarsi con ogni ente: e ciò è l'anima, che è in un certo senso tutte le cose, come viene detto nel terzo libro Sull'anima. Ma nell'anima c'è una facoltà conoscitiva e desiderativa. Dunque l'accordo dell'ente con il desiderio viene espresso dal nome “buono”, così come all'inizio dell'Etica [Nicomachea] si dice che il buono è ciò che tutti desiderano. E l'accordo dell'ente con l'intelletto viene espresso dal nome “vero” (Sulla verità q1a1c). In conclusione, sei sono (contando anche ens) le nozioni trascendentali: ens, res, unum, aliquid, verum, bonum. Ciò significa che ogni ente (cioè ogni cosa che ha essere) è una cosa in quanto determinato (cioè in quanto ha un'essenza), è un'unità in quanto identico a sé (come già esplicitamente rilevava Aristotele), è un qualcosa in quanto distinto dagli altri enti, è vero in quanto conoscibile, è buono in quanto desiderabile. Questo in sintesi lo schema del ragionamento di Tommaso: attributi speciali (praedicamenta) attributi generali (trascendentia) conseguono all'ente in sé affermativamente (res) negativamente (unum [indivisio]) conseguono all'ente in rapporto ad altro secondo la divisione di un ente da un altro (aliquid [aliud quid]) secondo l'accordo di un ente con un altro con l'intelletto (verum) con il desiderio (bonum) Qualche osservazione aggiuntiva. La prima riguarda il verum. Il fatto che esso sia un trascendentale dell'ente non significa che la verità sia una proprietà più delle cose che dell'intelletto: Tommaso tiene infatti ferma la nozione aristotelica di verità come corrispondenza soggettiva tra la mente umana e la realtà. Piuttosto, ogni cosa ha già, in quanto possiede essere ed essenza, una naturale predisposizione ad essere conosciuta. La definizione di verità come adaequatio rei et intellectus, che rimarrà classica nei secoli, intende tener conto sia dell'aspetto soggettivo, che è primario, sia di quello oggettivo, che è derivato. La seconda notazione riguarda il trascendentale bonum. Esso suppone la tesi della “irrealtà” del male, che viene ripresa dal neoplatonismo: il male è soltanto la mancanza di bene, cioè di essere, e più precisamente di un essere dovuto: la cecità è un male per l'uomo, ma non per l'albero. L'ultima osservazione riguarda il pulchrum, “bello”. Esso riceve discreta attenzione, ma non viene incluso nella lista dei trascendentali in quanto sostanzialmente omologato al verum. Tommaso interpreta infatti l'esperienza estetica come il piacere che si accompagna spontaneamente alla percezione della verità: Il bello e il buono in un soggetto sono lo stesso, perché si fondano sulla stessa cosa, cioè sulla forma: e per questo il buono viene lodato come bello. Ma differiscono per il carattere. Infatti il buono propriamente riguarda il desiderio: infatti il buono è ciò che tutti desiderano. E perciò ha il carattere di fine: infatti il desiderio è quasi un certo movimento verso una cosa. Il bello invece riguarda la facoltà conoscitiva: vengono dette infatti belle quelle cose che piacciono quando sono viste. Dunque il bello consiste in una debita proporzione, perché il senso prova diletto nelle cose debitamente proporzionate, come in cose simili a sé; infatti anche il senso è una certa ragione, come ogni virtù conoscitiva. E giacché la conoscenza avviene per assimilazione, e la somiglianza riguarda la forma, il bello propriamente riguarda il carattere della causa formale (Somma teologica 1, q5a4ad1). La dottrina dei trascendentali acquista anche un immediato rilievo dal punto di vista conoscitivo. Seguendo Avicenna, Tommaso afferma ripetutamente che l'ens è il primo oggetto dell'intelletto. Quest'affermazione non è contrapposta all'altra (di origine aristotelica) secondo cui l'oggetto proprio dell'intelletto umano è costituito dalla quidditas rei materialis, ma ne costituisce piuttosto la base: ogni essenza può essere conosciuta infatti solo in quanto esistente, e ogni concetto si formerà dunque “per addizione” rispetto alla nozione trascendentale di ente. In questo modo viene affermata l'originaria e immediata consonanza della mente umana con la totalità della realtà, quantunque originariamente colta solo nella sua assoluta generalità (a questo proposito egli parla di esse commune). In questo modo è possibile fondare anche, in modo più rigoroso di quanto aveva fatto Aristotele, la supremazia del primo principio dell'intelletto, il principio di non contraddizione. Esso infatti è la diretta traduzione in un giudizio del trascendentale unum, così come in campo morale è il trascendentale bonum a costituire la premessa per il primo principio pratico: Nelle cose che cadono sotto l'apprensione di tutti, si trova un certo ordine. Infatti ciò che cade per primo sotto l'apprensione è l'ente, la cui comprensione è inclusa in tutte le cose che uno conosce. E dunque il primo principio indimostrabile è che è impossibile contemporaneamente affermare e negare, che si fonda sul carattere dell'ente e del non ente; e su questo principio si fondano tutti gli altri. Ma come l'ente è la prima cosa che cade sotto l'apprensione in assoluto, così il bene è la prima cosa che cade sotto l'apprensione della ragione pratica, che è ordinata all'azione: tutto ciò che agisce infatti agisce per un fine, che ha il carattere di bene. E dunque il primo principio nella ragione pratica è quello che si fonda sul carattere del bene, che è: il bene è ciò che tutti desiderano. Questo è dunque il primo precetto della legge: il bene dev'essere fatto e cercato, il male evitato. E su di esso si fondano tutti gli altri precetti della legge di natura: in modo che cioè facciano parte dei precetti della legge di natura tutte le cose da fare o da evitare che la ragione pratica conosce essere beni umani (Somma teologica 2/1, q94a2c). È difficile sopravvalutare l'importanza di questa dottrina. Con essa infatti sembra giungere alla propria meta l'originaria intenzione di Aristotele, quella di costruire una scienza dell'“ente in quanto ente”. La successiva storia della filosofia in gran parte seguirà questa intuizione di Tommaso, e già Giovanni Duns Scoto (1266-1308) definirà la metafisica scientia transcendens (una definizione questa che, seppure in una prospettiva diversa, giungerà fino a Kant). In maniera simile a quanto avveniva in Aristotele, lo studio dell'ente in quanto tale culmina per Tommaso nella teoria dell'ente sommo, ovvero nella teologia: Tutto ciò che compete a qualcosa o è causato dai princìpi della sua natura, come la capacità di ridere nell'uomo, o viene da qualche principio esterno, come la luce nell'aria per influenza del sole. Ma non può essere che lo stesso essere sia causato dalla stessa forma o quiddità della cosa (intendo come causa efficiente): perché così una qualche cosa sarebbe causa di sé stessa, il che è impossibile. Dunque è necessario che ogni cosa, tale che il suo essere è diverso dalla sua natura, abbia l'essere da un altro. E poiché tutto ciò che è tramite un altro si riconduce a ciò che è per sé come alla causa prima, dunque è necessario che ci sia qualcosa che sia causa dell'essere per tutte le cose per il fatto che essa è soltanto essere. Altrimenti si andrebbe all'infinito nella cause, giacché ogni cosa che non è soltanto essere ha una causa del suo essere, come s'è detto. È chiaro quindi che l'intelligenza [l'angelo] è forma ed essere, e che ha l'essere dal primo essere che è soltanto essere (et quod esse habeat a primo esse quod est esse tantum); e questo è la causa prima, che è dio (Sull'ente 5, 4). Perciò, Dio dev'essere indicato come ipsum esse subsistens, come cioè l'unico ente che è l'essere, a differenza di tutti gli altri che hanno l'essere. Non soltanto egli s'identifica con la sua essenza (come gli angeli), ma anche con il suo stesso essere. In questo modo viene confermato razionalmente il nome che Dio rivela sul roveto ardente: “Così dirai a loro: "Io Sono mi ha mandato a voi"” (Es. 3, 14): questo è infatti il nome che può indicare meglio di qualsiasi altro “il mare infinito dell'essere” (che però va tenuto chiaramente distinto dall'esse commune, l'essere che possiedono tutte le cose create considerate astraendo dalle loro determinazioni). Il brano che abbiamo riportato presenta anche la struttura fondamentale della prova dell'esistenza di Dio secondo Tommaso: la stessa esistenza di cose che posseggono un essere soltanto partecipato mostra la necessità di qualcosa che sia originariamente l'essere e dunque causa prima di tutto il resto -- ciò che appunto si indica con la parola “Dio”. Si noti che questo ragionamento ha una forma induttiva di tipo aristotelico (si parte da ciò che è sott'occhio per giungere al principio primo), ma un punto di partenza niente affatto aristotelico, e cioè la distinzione reale di essenza ed essere nelle cose diverse da Dio. Un articolo celeberrimo della Somma Teologica (I, q2a3) elenca cinque diverse “vie” per dimostrare l'esistenza di Dio, alcune di ùispirazione pi aristotelica (la prima, la seconda, la quinta), altre di sapore più neoplatonico (la terza e la quarta). La struttura delle cinque vie è però simile: in tutte infatti si tratta di mostrare come ciò di cui si ha esperienza sarebbe inspiegabile se non si ammettesse un Dio che sta al di fuori del campo dell'esperienza stessa. Ecco in sintesi i ragionamenti seguiti: il movimento è impossibile se non si ammette un primo motore che non è mosso da nulla; il divenire è impossibile se non si ammette una prima causa efficiente; il contingente o possibile non può essere se non c'è qualcosa che è di per sé necessario (questa via si identifica con la dimostrazione prima considerata); i vari gradi di essere (e anche di verità, di bontà ecc. ) sono impossibili se non c'è un ente supremo in riferimento al quale giudicarli; il finalismo della natura, anche inanimata, è impossibile se non c'è un intelletto che la ordina. Sulle stesse basi Tommaso dimostra razionalmente la creazione, cioè la produzione di tutte le cose “dal nulla” (cioè “non da qualcosa di preesistente”): È necessario dire che tutto ciò che è in qualsiasi modo, sia da dio (omne quod quocumque modo est, a deo esse). Se infatti qualcosa si trova in un'altra cosa per partecipazione, è necessario che sia causato in essa da ciò a cui conviene essenzialmente (così come il ferro diventa infuocato per opera del fuoco). Ma è stato mostrato... che dio è lo stesso essere sussistente per sé. E poi è stato mostrato che l'essere sussistente non può essere che uno. ... Resta dunque che tutte le cose altre da dio non siano il loro essere, ma partecipino dell'essere (non sint suum esse, sed participant esse) (Somma teologica 1, q44a1c). E ricevere l'essere per partecipazione è proprio ciò che si indica con il termine “creazione” (ciò tuttavia non equivale a negare l'eternità del mondo, una tesi questa che viene confutata solo dalla rivelazione: è il tema dell'opuscolo Sull'eternità del mondo contro i mormoratori). La nozione platonica di “partecipazione”, assente dalla metafisica di Aristotele, diventa allora centrale in Tommaso: essa indica appunto la condivisione di qualche cosa da parte di chi la possiede originariamente e dunque definisce il rapporto originario tra Dio e le creature. Altrettanto importante è la nozione di “analogia”, che significa non più, come in Aristotele, solo l'uguaglianza di rapporti tra cose diverse (analogia proportionalitatis), ma anche la diversità di rapporti rispetto ad una stessa cosa (analogia attributionis). In questo secondo senso, l'analogia è una qualifica primaria della nozione di “ente”: l'essere infatti si trova in tutte le cose, ma non nello stesso modo, soprattutto nelle creature e in Dio: le prime “hanno” essere, il secondo “è” essere. È perciò possibile formulare su Dio affermazioni che, pur limitate, non sono tuttavia false. La stessa cosa si dovrà anzi dire a proposito di tutti gli attributi che si possono dire di lui: Alcune cose vengono dette di dio in maniera analoga, e non puramente equivoca, né univoca. Infatti non possiamo nominare dio se non a partire dalle creature. ... E così qualsiasi cosa venga detta di dio e delle creature si dice per il fatto che c'è un qualche ordine della creatura rispetto a dio, come al principio e alla causa in cui preesistono in modo eminente tutte le perfezioni delle cose. E questo modo di comunanza si trova tra la pura equivocità e la semplice univocità. Infatti nelle cose che vengono dette per analogia non c'è una sola relazione (ratio), come in quelle univoche, né una relazione totalmente diversa, come nelle equivoche: ma il nome che così viene detto in molti modi significa diverse proporzioni nei confronti di qualcosa di unico (Somma teologica 1, q13a5c). Uno dei più importanti fili conduttori per parlare analogicamente di Dio è costituito per Tommaso dalla teoria dei trascendentali. Se infatti Dio è “ente” nel significato più alto, i trascendentali gli competono per eccellenza: “qualsiasi cosa conviene all'ente in quanto ente è necessario che si trovi soprattutto nel primo ente” (Commento a Boezio, Sulla trinità, q1a4ob1). Si potrà dunque dire che Dio è assolutamente unico (in quanto unum), che racchiude in sé ogni possibile verità (in quanto verum), che è massimamente desiderabile da qualsiasi ente intelligente (in quanto bonum). Cose simili si potrebbero senza dubbio dire per gli altri trascendentali (anche se Tommaso non lo fa esplicitamente): Dio possiede l'essenza più ricca e anzi infinita (in quanto res), è massimamente individuato perché il suo essere coincide con la sua essenza (in quanto aliquid). Anche in questo modo Tommaso si pone sulla scia di Aristotele, considerando la teologia (razionale) come il coronamento della scienza dell'ente in quanto tale: ma contemporaneamente l'immagine di Dio -- già ad un livello puramente razionale -- muta profondamente: se da una parte c'è un Dio “pensiero di sé stesso” che non può amare il mondo pena la perdita della propria perfetta attualità, dall'altra c'è un Dio che proprio in quanto atto puro partecipa il proprio essere a tutte le creature, come dono dalla propria ricchezza. Infatti, il fatto stesso che le cose di cui abbiamo esperienza ci sono pur non godendo della coincidenza di essere ed essenza dimostra che il loro essere è ricevuto in dono. Ciò che si deve dire dell'essere va allora ripetuto per tutti gli altri trascendentali: Dio partecipa l'essenza, l'individualità, l'unità, la verità, la bontà a tutto il creato, che così porta la traccia della sua perfezione. Per la sua importanza storica, conviene inoltre toccare il problema della potenza di Dio (affrontato con dettaglio nelle questioni Sulla potenza e riassunto nella Somma). In Dio c'è potenza? Certamente essa non c'è nel senso in cui si oppone all'atto: Dio è infatti atto puro. Tommaso sfrutta però un secondo significato di potenza, che era stato già evidenziato (ma meno usato) da Aristotele: la potenza cioè non come possibilità di essere modificato, ovvero imperfezione (potentia passiva), ma come possesso di un principio di movimento o mutamento, ovvero perfezione (potentia activa). In questo secondo senso Dio non solo è potente, ma anzi onnipotente, essendo perfettissimo. Ma che cosa significa che egli può tutto? Dio viene detto onnipotente perché può tutte le cose possibili in assoluto. ... Ma l'essere divino, sul quale si fonda il carattere della potenza divina, è l'essere infinito, non limitato a qualche genere dell'ente, ma recante in sé la perfezione di tutto l'essere. Dunque qualsiasi cosa possa avere il carattere di ente fa parte delle cose possibili in assoluto, rispetto alle quali dio viene detto onnipotente. Ma nulla si oppone al carattere di ente, se non il non ente. Esso dunque ripugna al carattere del possibile in assoluto, che è sottomesso alla potenza divina, perché implica in sé l'essere e contemporaneamente il non essere. ... Tutte le cose dunque che non implicano contraddizione fanno parte di quelle cose possibili rispetto alle quali dio viene detto onnipotente (Somma teologica 1, q25a3c). Tale precisazione consente a Tommaso d'Aquino di respingere l'opinione secondo cui il mondo creato da Dio sarebbe “il migliore possibile”: Quando si dice che Dio può fare qualcosa meglio rispetto a ciò che fa, se “meglio” è un nome, è vero: infatti di qualsiasi cosa può farne un'altra migliore. ... Ma se “meglio” è un avverbio e riguarda il modo da parte di colui che fa, allora Dio non può fare meglio di come fa: perché non può fare con maggiore sapienza e bontà (Somma teologica, 1, q25a6ad1). Insomma, lo stesso concetto di “mondo migliore possibile” è contraddittorio, perché di qualsiasi cosa finita è sempre possibile una più perfetta (allo stesso modo, per esempio, è contraddittorio il concetto di “numero maggiore possibile”). Tuttavia anche in Tommaso, soprattutto nelle opere giovanili, si trovano dichiarazioni di ispirazione neoplatonica (analoghe a quelle che molto pi saranno caratteristiche di Leibniz ), in cui viene riconosciuto anche al male un ruolo nella bontà complessiva del mondo: Un universo in cui non ci fosse nulla di male non avrebbe tanta bontà quanta ne ha quest'universo, perché non ci sarebbero in quello tante buone nature quante in questo, in cui ci sono alcune nature buone alle quali non si aggiunge del male, e alcune alle quali si aggiunge: ed è meglio che ci siano entrambi i tipi di nature piuttosto che le prime soltanto (Commento al Libro delle sentenze, 1, d44q1a2ad5). La facoltà di parlare analogicamente di Dio non toglie che la sua essenza sia assolutamente impossibile da conoscere tramite le facoltà naturali dell'anima umana: questa, che essendo unita al corpo è la forma di una materia, può infatti conoscere solo ciò che le è connaturale: cioè le cose individuate nella materia (tramite i sensi) e le forme universali astratte dalle cose (tramite l'intelletto). Ma conoscere lo stesso essere sussistente che è Dio è al di sopra delle possibilità naturali di qualsiasi intelletto creato, che possiede l'essere solo per partecipazione. Dimostrare che Dio c'è (an est) è infatti ben diverso dal sapere che cosa egli sia (quid est). In questo modo Tommaso interpreta l'affermazione del prologo del vangelo di Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto” (1, 18), e contemporaneamente valorizza la tradizione della teologia “negativa” o “apofantica” (soprattutto Dionigi l'Areopagita), secondo la quale di Dio si può dire propriamente solo ciò che egli non è. D'altra parte, l'ignoranza dell'essenza di Dio è l'unico motivo per cui Tommaso contesta Anselmo d'Aosta (1033-1109), che riteneva che l'affermazione dell'esistenza di Dio sia “per sé nota”, cioè immediatamente evidente. Il difetto di questa opinione non consiste per Tommaso (come spesso poi affermato) in un indebito passaggio dal piano mentale a quello reale (per quanto riguarda Dio è perfettamente lecito dedurre dall'essenza l'esistenza), ma nella supposizione che l'uomo conosca l'essenza di Dio, il che equivale sostanzialmente ad una petitio principii. Ma dato che così non è, il concetto di Dio come essere sussistente viene formato dall'uomo solo a partire dalle cose contingenti che sono a lui più vicine: Questa proposizione: dio esiste, in quanto è in sé, è nota per sé, perché il predicato è identico al soggetto: dio infatti è il suo essere. ... Ma poiché noi non sappiamo di dio che cosa egli sia, per noi non è nota per sé, ma ha bisogno di essere dimostrata tramite le cose che sono più note dal nostro punto di vista e meno note dal punto di vista della natura, vale a dire tramite gli effetti (Somma teologica 1, q2a1c). Il risultato finale della metafisica di Tommaso è dunque differente da quello di Aristotele: la domanda sull'essere, che muove la meraviglia dell'uomo, può giungere alla fine solo ad una indicazione, ma non ad una risposta intellettualmente completa. Si potrebbe dire che anche davanti ad una pietra risulta impossibile chiarire fino in fondo che cosa significhi per essa esistere: si potrà sì dire che ciò vuol dire avere l'atto di essere partecipato da colui che è l'essere, ma quale sia l'essenza dello stesso essere rimane ignoto. La metafisica culmina così in un grande interrogativo, dietro al quale però è già assicurato che non si trova il nulla, ma al contrario la sovrabbondanza di tutte le perfezioni che conosciamo solo imperfettamente e limitatamente e tuttavia desideriamo spontaneamente nella loro totalità. Il problema dell'essere si sposta così dal campo speculativo al campo morale. Come la fisica nel suo complesso, anche la dottrina dell'anima è in Tommaso pressoché interamente ripresa da Aristotele. Alcune correzioni dovevano però essere introdotte per renderla compatibile con la rivelazione cristiana. I due punti più delicati erano costituiti dalla dottrina dell'intelletto agente (o “produttivo”) e dall'immortalità. Riguardo al primo, Tommaso, prendendo posizione in una celebre questione che Aristotele aveva lasciato poco definita, ritiene che vada necessariamente ammesso che l'intelletto agente sia qualcosa appartenente alla singola anima: Alcuni hanno affermato che quest'intelletto separato secondo la sostanza sia l'intelletto agente, che, quasi illuminando le immagini sensibili, le rende attualmente intellegibili. Ma, concesso che ci sia un tale intelletto agente separato, purtuttavia bisogna affermare che nella stessa anima ci sia una qualche facoltà partecipata da quell'intelletto superiore, tramite la quale l'anima umana le rende attualmente intellegibili. ... E questo lo conosciamo sperimentalmente, quando percepiamo di astrarre forme universali da condizioni particolari, il che significa renderle attualmente intellegibili. Infatti nessuna azione conviene a qualche cosa se non tramite un qualche principio che gli inerisca formalmente. ... Ma l'intelletto separato, secondo i documenti della nostra fede, è dio stesso, che è creatore dell'anima. ... Dunque da lui l'anima umana partecipa la luce dell'intelletto (Somma teologica 1, q79a4c). In questo modo Tommaso modifica drasticamente anche la dottrina agostiniana dell'illuminazione: l'uomo conosce non perché attualmente lo illumini Dio (che alcuni identificavano con l'intelletto agente unico di cui parlava Avicenna), ma perché il suo proprio intelletto ha ricevuto -- una volta per tutte -- una luce naturale sufficiente a garantire l'autonomia e la correttezza della sua conoscenza. A maggior ragione risulta confutata la teoria di Averroè e dei suoi seguaci, che teorizzavano l'unicità anche dell'intelletto possibile, affermando così un'unica anima per tutta la specie umana (questo è l'argomento affrontato nell'opuscolo polemico Sull'unità dell'intelletto contro gli averroisti). La posizione di Agostino e dei contemporanei maestri francescani viene rifiutata anche da un altro punto di vista: in quanto cioè essa sosteneva che nell'uomo esistano più “forme”, che cioè le anime intellettiva, sensitiva e vegetativa siano realmente distinte. Seguendo Aristotele, Tommaso afferma invece che nell'uomo c'è un'unica anima intellettiva, che assume anche le funzioni delle anime inferiori e dev'essere dunque definita ancora “forma corporis”. Infatti, è lo stesso uomo che percepisce di sentire (tramite il corpo) e di pensare (tramite il solo intelletto). Ciò è un ulteriore segno che solo l'unione di anima e corpo può essere indicata come “uomo”. Ma non viene in questo modo negata l'immortalità? Tommaso ritiene di no. La chiave dell'argomentazione è costituita dal mostrare che l'anima intellettuale, quantunque sia forma del corpo, è tuttavia un principio incorporeo e sussistente, cioè autonomo. Gli atti intellettuali infatti manifestano un carattere di universalità che non può essere attribuito ai sensi corporei, neanche come semplici strumenti: la corporeità impedirebbe infatti, essendo legata al qui e all'ora, lo svolgimento di una conoscenza universale. Ora, qualcosa di sussistente può corrompersi solo perdendo la propria forma. Ma l'anima è forma, ed è impossibile che una cosa si separi da sé. Dunque l'anima è incorruttibile. Ma c'è anche un argomento più immediato, di sapore agostiniano, tramite il quale si può indurre l'immortalità dell'anima: Un segno di questa cosa può essere preso anche dal fatto che ciascuna cosa naturalmente desidera essere a suo modo. Ma nelle cose conoscenti il desiderio segue la conoscenza. Il senso non conosce l'essere se non sotto il qui e l'ora: ma l'intelletto apprende l'essere assolutamente e secondo ogni tempo. Dunque chiunque ha intelletto desidera naturalmente essere sempre. Il desiderio naturale non può del resto essere vano. Dunque ogni sostanza intellettuale è incorruttibile (Somma teologica I q75a6c). Il presupposto è ovviamente costituito dalla coerenza e dalla bontà dell'intera natura, che, in quanto esistente grazie alla partecipazione dell'essere divino e ad esso orientata, non può mai ispirare un desiderio irrealizzabile. Sul piano teologico, con un argomento simile si può sostenere la convenienza della resurrezione finale dei corpi: quantunque infatti -- come si vedrà -- l'anima può giungere di per sé alla beatitudine, la riunione con il corpo la renderà più perfetta. La dottrina dell'anima di Tommaso suscitò numerose discussioni presso i contemporanei. In essa infatti sembravano essere presenti troppe concessioni alla filosofia pagana, che rendevano problematici perfino elementi essenziali della fede cristiana. Dietro alle discussioni speculative c'era tuttavia una questione fondamentale di atteggiamento culturale: in Tommaso la rivendicazione della verità della psicologia aristotelica supponeva implicitamente una piena valutazione dell'autonomia e della globale bontà dell'essere umano -- anima e corpo -- che poteva apparire pericolosa per la religione cristiana. Il tempo avrebbe in realtà dato ragione a Tommaso, e la sua psicologia divenne addirittura parte dell'insegnamento ufficiale della Chiesa: nel 1312 il Concilio di Vienna addirittura anatematizzerà chi affermi che “anima rationalis seu intellectiva non sit forma corporis humani per se et essentialiter” (DS 902). Anche nella morale Tommaso d'Aquino si ispira da vicino ad Aristotele, tanto che la sua esposizione sembra spesso obbedire solo alla preoccupazione di mettere maggiore ordine e precisione nella teoria aristotelica. In realtà, la stessa assunzione dell'etica aristotelica è molto significativa: essa sottolinea, una volta di più, che il piano puramente naturale -- quello che era stato raggiunto dalla filosofia pagana -- mantiene una sua autonomia e validità anche all'interno della prospettiva cristiana. L'aspetto più interessante della morale di Tommaso consiste allora proprio nel modo in cui quest'ultima viene integrata all'interno della struttura classica. Il punto di partenza, così come per Aristotele, consiste nel precisare che l'uomo agisce sempre -- in maniera più o meno consapevole -- in vista di un fine, e nel cercare quale mai possa essere questo fine. Anzitutto bisogna mostrare come tutti i beni naturali, che sono alla portata delle sole forze dell'uomo, non riescono a soddisfare la sua sete di felicità: né le ricchezza, né gli onori, né la fama, né il potere, né la perfezione corporale, né il piacere, né la perfezione dell'anima, né in generale alcun bene creato può costituire la sua felicità ovvero beatitudine: La beatitudine infatti è un bene perfetto, che sazia totalmente il desiderio: altrimenti non sarebbe il fine ultimo, se restasse ancora qualcosa da desiderare. Ma l'oggetto della volontà, che è il desiderio umano, è il bene universale (così come l'oggetto dell'intelletto è il vero universale). Da ciò è evidente che nulla può soddisfare la volontà dell'uomo all'infuori del bene universale. Ed esso non si trova in nulla di creato, ma solo in dio, perché ogni creatura ha solo una bontà partecipata. Dunque solo dio può soddisfare la volontà dell'uomo, secondo le parole del Salmo 102, 5: “Colui che ricolma di beni il tuo desiderio”. Dunque, solo in dio consiste la beatitudine dell'uomo (Somma teologica 2/1, q2a8c). Dire che Dio è la beatitudine dell'uomo però non basta. Bisogna precisare più da vicino in quale modo l'uomo possa conquistare questa felicità ultima: La beatitudine ultima e perfetta non può consistere in altro che nella visione dell'essenza divina. Affinché ciò sia evidente bisogna considerare due cose. In primo luogo, che l'uomo non è perfettamente beato finché gli resta qualcosa da cercare e desiderare. In secondo luogo, la perfezione di qualsiasi facoltà è in rapporto al genere del suo oggetto. Ma l'oggetto dell'intelletto è il che cos'è, cioè l'essenza della cosa. ... Dunque la perfezione dell'intelletto procede in tanto in quanto esso conosce l'essenza di qualche cosa. Se dunque un intelletto conosce l'essenza di qualche effetto, tramite la quale non possa essere conosciuta l'essenza della causa (non si possa cioè sapere che cosa sia la causa), non si deve dire che l'intelletto abbia raggiunto in senso assoluto la causa, sebbene tramite l'effetto possa conoscere della causa che essa c'è. E dunque all'uomo rimane naturalmente il desiderio, quando conosce l'effetto e sa che esso ha una causa, di sapere anche che cosa sia quella causa. E questo desiderio è la meraviglia, che causa la ricerca, come viene detto all'inizio della Metafisica. ... Se dunque l'intelletto umano, conoscendo l'essenza di qualche effetto creato, di dio sa soltanto che c'è, la sua perfezione non raggiunge ancora in senso assoluto la causa prima, ma gli rimane ancora un desiderio naturale di cercare la causa. Dunque non è ancora perfettamente beato. Dunque per la perfezione della beatitudine si richiede che l'intelletto giunga alla stessa essenza della prima causa (Somma teologica 2/1, q3a8c). In questo modo morale e metafisica vengono legate in modo ancora più stretto di quanto già avveniva in Aristotele. Se in lui la felicità maggiore veniva individuata -- al termine dell'analisi del comportamento umano -- nella vita teoretica, che però era realizzabile solo in maniera parziale (è impossibile per l'uomo passare la vita a contemplare soltanto), in Tommaso la stessa morale è fin dall'inizio mossa da quella meraviglia che costituisce il primo movente della ricerca, e dunque orientata ad un fine ultimo di sua natura assoluto e perfetto. Si realizza allora un curioso contrasto: il fatto stesso che l'uomo possa desiderare il bene perfetto mostra che egli di fatto lo può raggiungere (altrimenti esisterebbe un desiderio naturale smentito dalla natura stessa, il che è contraddittorio); ma tuttavia le sue forze naturali sono palesemente insufficienti a raggiungerlo: ciascuna creatura infatti conosce “secundum modum substantiae eius”, cioè adattando l'oggetto conosciuto alla propria natura: ma l'essenza divina eccede infinitamente qualsiasi essenza creata. Ciò mostra la necessità di ammettere razionalmente la possibilità di altre virtù oltre quelle intellettuali (dianoetiche) e morali (etiche): quelle teologiche (o teologali), la cui realtà è testimoniata dalla rivelazione cristiana: C'è una duplice beatitudine ovvero felicità dell'uomo. Una proporzionata alla natura umana, cioè alla quale l'uomo può giungere tramite i princìpi della sua natura. Un'altra è la beatitudine che eccede la natura dell'uomo, alla quale l'uomo può giungere solo per virtù divina, secondo una certa partecipazione da parte della divinità, secondo ciò che viene detto in 2Pt. 1, 4, che tramite Cristo siamo diventati partecipi della natura divina. E poiché una tale beatitudine eccede la proporzione della natura umana, i princìpi naturali dell'uomo, in base ai quali procede per agire bene secondo la sua proporzione, non bastano per ordinare l'uomo verso la suddetta beatitudine. Dunque è necessario che all'uomo vengano aggiunti da parte di dio alcuni princìpi per mezzo dei quali egli venga ordinato alla beatitudine soprannaturale. ... E tali princìpi vengono detti virtù teologiche: sia perché hanno dio come oggetto, in quanto tramite esse veniamo rettamente ordinati verso dio; sia perché solo da dio vengono infuse in noi; sia perché solo tramite la rivelazione divina, nella Sacra Scrittura, simili virtù vengono tramandate (Somma teologica 2/1, q62a1c). Le virtù teologiche -- così come enumerate da Paolo in 1Cor. 13, 13 -- sono fede, speranza e amore (caritas). Ciascuna di esse porta a perfezione un aspetto dell'anima razionale in relazione al suo fine ultimo: la fede perfeziona l'intelletto, la speranza il tendere della volontà al sommo bene, l'amore il suo conformarsi al fine ultimo. La loro trattazione è compito della teologia e non più della filosofia, ma ciò non toglie che anche su di esse è possibile e necessario riflettere in maniera razionale. Notiamo solo due aspetti interessanti. Il primo consiste nel fatto che le virtù teologiche, a differenza di tutte le altre (secondo Tommaso anche di quelle intellettuali), non consistono nel “giusto mezzo”: nei confronti di Dio non possono infatti esistere eccessi, ma anzi vi sono sempre difetti: nessun uomo -- in quanto creatura finita -- potrà infatti mai amare Dio o credere o sperare in lui quanto sarebbe giusto. Il secondo consiste nella preminenza che viene accordata all'amore. Esso è da giudicare la più grande delle virtù, anzi la loro stessa “forma” (in quanto indirizza tutte le altre al fine ultimo che è Dio), ed è l'unica ad avere un carattere definitivo: la fede riguarda infatti ciò che non si vede (dunque scomparirà quando si vedrà l'essenza divina), la speranza ciò che non si ha (e dunque non avrà più motivo quando si possederà Dio): solo l'amore conduce in assoluto all'unione con colui che si ama. Questo mostra anche che solo in un certo senso la meraviglia che motiva la vita morale è destinata ad essere spenta: nella visione dell'essenza divina infatti la cosa più importante non è comprendere Dio tramite l'intelletto, ma piuttosto amarlo: Le virtù teologiche hanno un oggetto che è al di sopra dell'anima umana. ... Ma in ciò che è sopra l'uomo l'amore è più nobile della conoscenza. Infatti la conoscenza si realizza nel fatto che le cose conosciute sono nel conoscente; ma l'amore, nel fatto che l'amante viene attratto verso la cosa amata (Somma teologica 2/1, q66a6ad1). In questo modo il tipico intellettualismo greco, che Tommaso dapprima sembra condividere, viene corretto sulla base della creaturalità dell'uomo e degli insuperabili limiti del suo intelletto. Il primo oggetto del pensiero dell'uomo è l'essere: ma questo nella sua forma più perfetta, dunque come beatitudine, è destinato a rimanere sempre incomprensibile, chiedendo solo l'adesione dell'amore. Il principio della destinazione soprannaturale dell'uomo conferisce importanza centrale ad un tema che non poteva interessare molto un'etica puramente naturale: il problema cioè dei criteri di valutazione degli atti umani. Laddove in Aristotele il loro valore veniva immediatamente attribuito dalla capacità di contribuire ad una felicità naturale, in Tommaso essi sono tanto buoni quanto rendono l'uomo meritevole di ricevere in dono -- dopo il corso della vita terrena -- la visione dell'essenza divina. In questo modo la felicità naturale non viene però negata, ma piuttosto ordinata alla felicità completa e infinita cui l'uomo aspira. È per questo che il criterio fondamentale della moralità delle azioni resta ancora la recta ratio (corrispondente all'orthós lógos aristotelico): se la ragione è in grado di dirigersi verso un fine soprannaturale, essa sarà capace anche di ordinare le azioni dell'uomo verso di esso. È insomma alla ragione che spetta l'insostituibile compito di dare senso e valore all'intero campo dei comportamenti autenticamente umani. In questa prospettiva però si crea un grande problema, che costituirà nelle sue implicazioni tema di interminabili discussioni nella morale cristiana. Nella sua forma più semplice può essere espresso così: se tutto ciò che viene fatto volontariamente dall'uomo è scelto sub specie boni, cioè perché in esso viene visto qualcosa di buono, su quale base si potrà parlare dal punto di vista della volontà -- l'unica che rende un'azione realmente umana -- di un'azione cattiva? Ancora più semplicemente: come può esistere un peccato realmente imputabile all'uomo? Il problema nasce appunto perché viene presupposta l'esistenza di un giudice delle azioni umane che non guarda solo al loro aspetto materiale, ma piuttosto all'intenzione con la quale esse vengono compiute. La risposta di Tommaso (in buona parte ispirata a Pietro Abelardo) è piuttosto articolata. Anzitutto bisogna distinguere più cause che possono rendere cattiva un'azione umana: L'uomo, come anche qualsiasi altra cosa, ha naturalmente desiderio di bene (appetitum boni). Dunque il fatto che il suo desiderio devìi al male accade a causa di una qualche corruzione o disordine in qualcuno dei princìpi dell'uomo: così infatti si trova l'errore nell'azione delle cose naturali. Ma i princìpi degli atti umani sono l'intelletto e il desiderio, sia razionale (che viene chiamato volontà), sia sensitivo. Dunque il peccato negli atti umani accade sia per difetto d'intelletto, per esempio quando uno pecca per ignoranza; e per difetto del desiderio sensitivo, come quando uno pecca per passione; così anche per difetto di volontà, che è un suo disordine (Somma teologica 2/1, q78a1). Esaminiamo brevemente i tre casi. Il primo si verifica quando l'uomo agisce in sèguito ad un'ignoranza volontaria o a cui egli avrebbe potuto rimediare. Per esempio, nessuno potrà scusarsi dell'adulterio adducendo la sua ignoranza della legge di natura che proibisce di andare con la moglie di un altro: perché proprio questa ignoranza è colpevole. L'unica ignoranza che scusa un'azione in sé cattiva è infatti quella che non è causata da negligenza né tanto meno intenzionale. Ma che cosa accade se la ragione, senza alcuna colpa, presenta ad un uomo come buona un'azione che invece in sé è cattiva? L'uomo ha il dovere di seguirla; se viceversa agisse contro la propria ragione, commetterebbe peccato, perché sceglierebbe un'azione in quanto cattiva. Un esempio estremo e paradossale: Credere in Cristo per sé è cosa buona e necessaria alla salvezza: ma la volontà non vi si dirige se non secondo ciò che la ragione propone. Dunque, se dalla ragione ciò fosse proposto come un male, la volontà vi si dirigerebbe come ad un male: non perché sia in sé male, ma perché è male per accidente, in seguito all'apprensione della ragione (Somma teologica 2/1, q19a5). In conclusione: l'uomo ha sempre il dovere di agire secondo ragione (o, come anche si esprime Tommaso, “secondo coscienza”). Ma, parimenti, ha il dovere di rendere il più corretto possibile il giudizio della ragione. Il secondo caso succede quando l'uomo, pur conoscendo la legge universale (che è dettata dalla ragione), si lascia tuttavia sopraffare dalla passione sensibile, che gli suggerisce un bene che per quanto abbia una sua validità (per esempio il puro piacere), è tuttavia disordinato per l'uomo, in cui la forma essenziale è costituita dall'intelletto: si tratta quindi di un bene apparente, e non di un bene reale. Il terzo caso avviene quando l'uomo coscientemente preferisce un bene subordinato ad uno sovraordinato: quando per esempio preferisce la ricchezza (che in sé è un bene) alla vita di un altro uomo (che è un bene immensamente più grande): in questo caso si può quasi dire che l'uomo scelga coscientemente il male, sebbene sarebbe più corretto dire che sceglie consapevolmente un bene palesemente minore. Sostanzialmente originale rispetto ad Aristotele è anche la dettagliata trattazione che Tommaso offre del concetto di legge, definita come “ordinamento razionale diretto al bene comune, promulgato da colui che ha la cura della comunità” (“quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata”, Somma teologica 2/1, q90a4c). È lo strettissimo nesso con la ragione umana che permette di assumere la legge come criterio della bontà dei comportamenti. Ma non è certamente la legge umana quella che interessa di più Tommaso, ma piuttosto quella che, promulgata dal Dio onniprovvidente (o meglio coincidente con il suo intelletto), tende al massimo bene comune dell'intero universo: questo è il concetto di lex aeterna. Nella misura in cui essa viene partecipata all'uomo tramite la ragione, essa va poi chiamata lex naturalis. Questa tuttavia sarebbe sufficiente solo se l'uomo fosse ordinato ad un fine puramente naturale: ma dato che la sua destinazione è soprannaturale, è necessario che egli riceva anche una lex divina positiva, tramite le quale anche la legge naturale acquisti maggiore certezza ed efficacia. La legge divina -- la cui trattazione è compito non più della filosofia ma della teologia -- è quella che la rivelazione ci trasmette nella duplice forma di legge antica e legge nuova (cioè evangelica), la seconda delle quali perfeziona e adempie pienamente
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